Di autunno, disabilità e di imperfezioni da amare
“Che tristezza, è già finita l’estate”.
Stamattina, nel negozio di animali, una signora si stava lamentando del tempo con il commesso.
Ha cercato inutilmente complicità nel mio sguardo, dando per scontato ch’io fossi d’accordo, senza immaginare che, al contrario, amo profondamente l’autunno.
D’ora in avanti, fino ai primi giorni di febbraio, comincia il periodo dell’anno che amo di più in assoluto.
L’estate arriva d’improvviso da un giorno all’altro; ti scoppia come un gavettone pieno zeppo d’acqua fra le mani e non ti dà il tempo di abituarti.
L’autunno, invece, s’insinua piano piano nelle nostre giornate e nelle abitudini.
Una mattina ti svegli coi piedi freddi, metti via i sandali e indossi le scarpe chiuse; sopra la t-shirt t’infili un golfino, aggiungi una coperta sul letto.
La natura cambia lentamente aspetto, sui banchi ortofrutticoli compaiono i primi frutti della terra tipici di questa stagione (quanto sono buoni i piatti autunnali con i funghi, la zucca, i porri e le castagne!).
Man mano che le temperature diminuiscono, i colori si fanno sempre più caldi per strada, sulle nostre tavole e negli armadi.
Realizzo che la bellezza non è sempre evidente, a volte va saputa cogliere, va percepita senza pregiudizio. E non è mai lontana dall’amore.
Quando facevo gli interventi educativi ai ragazzi disabili, andavo nelle case delle famiglie. Era una mia scelta, mi piaceva.
Dovevo lasciare l’arroganza fuori dalla porta, entrare in punta di piedi e imparare ad ascoltare, ad accogliere senza pregiudizio. Tutto, anche ciò che non capivo.
Dopo un piccolo, naturale momento di diffidenza iniziale, nel quale sia i famigliari del ragazzo sia io ci studiavamo con curiosità; minuti durante i quali cercavamo di capire se potevamo fidarci gli uni dell’altra e cominciare un rapporto collaborativo, quasi sempre subentrava un senso di famigliarità.
Nel tempo io diventavo una presenza costante e rassicurante, una figura amichevole su cui poter contare.
Entravo naturalmente nella loro routine settimanale insieme alla parrucchiera, al fattorino per la spesa, all’infermiera domiciliare e ai parenti più stretti.
Mentre io davo una piccola mano a loro, a mia volta imparavo il valore della devozione, del calore famigliare, della semplicità e l’accettazione delle cose.
Ci arricchivamo entrambi.
Non mi facevo scorgere, ma ero solita spiare, avida, quelle madri capaci di vedere la bellezza nelle imperfezioni evidenti, la crescita nei cambiamenti impercettibili, di provare amore nelle difficoltà.
Una famiglia, in particolare, mi è rimasta impressa a lungo.
Abitavano in una casa dall’aspetto contadino, in un piccolo paese non lontano da Treviso.
Non erano poveri, ma nemmeno navigavano nemmeno nell’oro, specie dopo che il marito era andato In pensione.
La signora possedeva una sola giacca invernale e due capi eleganti che indossava alternativamente, un giorno uno, il giorno seguente l’altro: una gonna e un paio di pantaloni.
Al mattino metteva la gonna, poi, presumo, alla sera la piegasse con cura e la riponesse nel guardaroba; il giorno dopo era il turno dei pantaloni.
Faceva la messa in piega e la tinta in casa, da sola.
Era sempre molto curata, sempre in perfetto ordine.
Noi educatori eravamo colpiti dalla bellezza che emanava nonostante la sua vita dura.
La loro casa era sempre piena di amici, di vicini che andavano e venivano con qualche pensierino. Quella famiglia attirava le persone come i fiori attraggono gli insetti.
È lì che ho cominciato a intuire come sia impossibile scorgere la bellezza se non con gli occhi dell’amore.
In quella casa, fra quella gente si respirava un amore fuori dal comune.
Quella donna si prendeva cura del figlio disabile, della figlia, del marito, dei due cani. del giardino e della casa con un amore tenero e autentico.
L’avevo soprannominata “la signora dei fiori”, perché era piena di campanule colorate che annaffiava con scrupolo e che attiravano l’attenzione dei passanti.
Mai come adesso sto capendo quanto la bellezza sia legata all’amore.
Quant’è difficile, però, per noi donne vederci belle, imparare ad amarci!
Siamo convinte di aver sempre bisogno di ritocchini chirurgici, diete, ore di palestra.
Possiamo essere diventate professioniste competenti e di successo, essere cantanti che hanno calcato i maggiori palcoscenici del mondo, giornaliste affermate, medici brillanti, eppure sotto sotto continuiamo a sentirci inadeguate, alla ricerca perenne del peso perfetto, del viso perfetto, del corpo perfetto.
È una brava conduttrice, peccato che sia ingrassata; ha una bella voce, ma si veste malissimo, non ha smaltito i chili di troppo dopo il parto, è invecchiata male.
Più cresciamo e più c’imponiamo disciplina, regole ferree, sacrifici.
Quanto amore può esserc dietro queste continue correzioni, queste dure imposizioni, questa forzatura nel fare le foto adottando la posa migliore?
In questi giorni mi capita di ripensare spesso alla signora dei fiori, anche se so che non c’è più.
Avrei voluto che mi avesse insegnato a guardare le cose e le persone coi suoi occhi. A sbarazzarmi dei preconcetti famigliari e culturali, dei giudizi severi, ad accogliere le imperfezioni con amore, in modo naturale.
Penso alle donne vicine a me: una diversa dall’altra, ma tutte così profondamente insicure.
In continuo conflitto con la nostra femminilità.
È la sfida che sto affrontando in questi giorni quando guardo mia madre, il suo corpo provato da due interventi chirurgici delicati, i suoi sforzi di imparare nuovamente ad accettarsi alla sua età.
O siamo troppo bambine, emotive, dipendenti o siamo troppo orgogliose, chiuse e testarde. O curiamo troppo l’aspetto fisico o lo curiamo troppo poco.
Non andiamo mai davvero bene così come siamo. Non siamo mai realmente libere di essere accolte senza le aspettative, le critiche, i confronti, nei nostri alti e bassi umorali, ormonali, di idee e intenzioni.
C’è chi ha esasperato la propria femminilità arrivando a scimmiottare una bambina capricciosa in un corpo adulto, una bambolina dalla testa in apparenza vuota; chi, invece, ha sacrificato parti femminili per mostrare sicurezza davanti agli altri, per non farsi calpestare.
Illuso chi crede, erroneamente, che basti farsi inserire due protesi nel petto, indossare una gonna e truccarsi per diventare una donna a tutti gli effetti!
È davvero riduttivo liquidare l’universo femminile con due accessori e un paio d’interventi chirurgici.
Ma quando abbiamo cominciato noi donne a guardarci con gli occhi degli uomini?
A rifiutare con fastidio, o addirittura rabbia, le altre donne che sfoggiano in modo evidente la propria femminilità, come fosse una colpa?
A giudicare severamente chi bamboleggia, chi mostra eccessiva dolcezza, maternità o sensualità?
Quando abbiamo iniziato a incarnare, senza accorgercene, l’ideale che gli uomini hanno d noi?
A fare foto col seno in primo piano per compiacere l’altro, anche se abbiamo una laurea, una competenza interessante, un sorriso di cui siamo fiere.
Indipendenti, forti, coraggiose, ma anche devote, materne, sensuali; magre, muscolose, ma con curve vertiginose, sempre giovani?
Quando è diventato più importante farci amare dall’uomo piuttosto che volerci bene noi con tutte le nostre naturali imperfezioni?
Perché riusciamo a guardare con amore la pancetta del nostro compagno o la prima stempiatura, i capelli brizzolati, ma siamo aspramente critiche se notiamo una smagliatura nuova sulle gambe, qualche macchiolina sul viso o le occhiaie dopo poche ore di sonno?
In questi giorni le mie meditazioni sono incentrate su questo, sul portare amore nella mia vita, anche in quei momenti faticosi che non vorrei vivere; nelle cose che mi ricordano le mie imperfezioni, nelle mie fragilità.
A perdonarmi se non sono perfetta, a non sentirmi perennemente inadeguata, a non fare inutili confronti. A perdonare e amare le imperfezioni delle altre donne della mia famiglia.