Di fantascienza e dell'importanza di curare i dettagli

 

In questi giorni sto rileggendo alcuni racconti di Ray Bradbury.

C’è chi sostiene che Bradbury scrisse racconti, perché non era in grado di scrivere dei romanzi complessi (e che anche i suoi romanzi siano in realtà racconti lunghi) e chi dice, invece, che la bravura di uno scrittore si misura proprio dalla qualità dei suoi racconti.

A me poco importa chi abbia ragione: mi piacciono sia i romanzi sia i racconti di Bradbury e questo mi basta per avere voglia di rileggerli, di tanto in tanto.

La curiosità per la fantascienza mi è nata da piccola, grazie ai mei genitori.

Sebbene fossi solo una bambina, guardavo film e serie TV di fantascienza con mia madre, come Alien, Visitors, Ai confini della realtà.

Mio padre era appassionato dei romanzi di Urania e lasciava in giro per casa quei piccoli libretti dalle copertine particolari.

Mi ricordo che m’imbattevo per caso in un libricino e restavo assorta per un po’ di tempo, incantata dalle immagini e dai colori.

Mi divertivo a fantasticare su quei disegni, immaginavo mondi strani e inquietanti, mi perdevo a osservare quelle copertine, scrutando ogni particolare.

Ancora oggi Urania, per me, equivale alla mia infanzia, a mio padre e alla sua passione per la fantascienza.

Che si tratti di racconti, romanzi brevi o di copertine dalle immagini piccole, la maestria di chi li produce è racchiusa nella cura dei dettagli.

In uno spazio così ridotto deve essere concentrato un mondo intero, pieno di significato.

Lo stesso vale per le relazioni, almeno per me.

Quando si cresce imparando a bastarsi, a essere autosufficienti, per quanto l’età e le condizioni lo permettano, ci si abitua a non chiedere spesso o troppo.

Se all’inizio l’indipendenza è una necessità, poi diventa un traguardo. Non è tanto una questione di orgoglio o arroganza, ma l’opportunità di misurarsi con i propri limiti e provare a oltrepassarli.

Un atteggiamento che influenza inevitabilmente le relazioni con gli altri.

Una persona indipendente non cerca nell’altro un aiuto, un sostegno pratico, ma il piacere di una conoscenza, l’arricchimento di un confronto nato da due universi umani diversi che s’incrociano per un po’.

Cerca la cura, l’affetto attraverso i piccoli particolari, quei gesti insignificanti ai più, ma preziosi per chi sa dare loro valore.

Un pensiero in un giorno speciale, un accenno, un’attenzione. Tracce di affetto quasi impercettibili disseminate qua e là nell’arco di una giornata che vogliono dire: “ti penso”.

Questo non è accontentarsi, tutt’altro. Significa essere cresciuti a tal punto che s’impara a diventare i genitori di sé stessi e a non cercare più un padre o una madre nell’altro.

Mi ricordo che quando ero piccola e viaggiavamo in auto, mio padre metteva delle musicassette nell’autoradio. Una di queste era “Oro, incenso e birra” di Zucchero.

C’era una canzone in particolare, che mi piaceva ascoltare, che a un certo punto diceva: “ti amo perché ne ho bisogno, non perché ho bisogno di te”.

Pur essendo molto piccola, avvertivo già l’importanza di quella frase e mi ripromettevo puntualmente che io da grande avrei amato in quel modo, per non litigare come facevano gli adulti attorno a me.

Negli animi dei bambini ci sono profondità insospettabili per un adulto distratto.

In tutto quello che facciamo, compresa la scrittura, penso che dovremmo cominciare dalle cose piccole, allenarci a prenderci cura dei dettagli per poi ambire a qualcosa di più grande.

 
Virna Cipriani