Di erbe, scheletri e della prosa gaddiana

 

Quando ero piccola, vivevo in una villetta di campagna insieme a mio padre, mia madre, le mie sorelle, Napoleone il gatto siamese e Giacomino, uno scheletro.

In quel periodo mio padre, odontotecnico, prese l’ambiziosa decisione d’iscriversi a Medicina per diventare un medico dentista.

E così un giorno tornò a casa con un cranio e un mucchio di ossa vere, dentro una borsa, che abbandonò per degli anni in salotto.

Giacomino divenne a tutti gli effetti un membro della famiglia: ci faceva compagnia la sera quando guardavamo la TV; assisteva in un angolo ai pranzi festivi, quelli apparecchiati nella sala da pranzo; se ne stava buono buono, mentre noi bambine giocavamo in salotto con mio madre che tuonava dalla cucina: ”non giocate a palla vicino a Giacomino!”.

Solo Napoleone il gatto non lo sopportava e se ne teneva a debita distanza.

Oltre a Giacomino, per prepararsi agli esami di Medicina mio padre si procurò anche un’enciclopedia medica e un librone sulle piante officinali.

Quest’ultimo scatenò in me un’attrattiva crescente: mi piaceva sfogliarlo per guardare tutte le piante e scoprire i loro benefici.

Credo che la mia passione per la medicina naturale abbia avuto origine in quel periodo; una passione che negli anni mi ha spinta a prendere iniziative discutibili e tutt’oggi più che mai viva.

Da ragazzina, per esempio, mi capitò fra le mani una ricetta risalente al secolo scorso per preparare un tisana curativa di erbe.

Mi rivolsi decisa alla commessa dell’erboristeria del mio quartiere per chiederle tutte le erbe elencate sul mio foglietto ingiallito.

Lei, dal canto suo, mi guardò fra lo stupita e il divertita, dicendomi che molte erbe non erano più legali, come la belladonna (seppi in seguito che lo raccontò a mia madre e che si fecero una gran bella risata alle mie spalle).

Non paga, qualche anno dopo trascinai un mio amico in alcune passeggiate organizzate da un’associazione di appassionati di erbe: due volte al mese andavamo in giro per le campagne del Veneto alla ricerca delle varie piante officiali.

Lui mi accompagnò pazientemente, più per affetto nei miei confronti che per autentico interesse, ben conscio di due cose:

  1. io non ho memoria visiva e non sono in grado di distinguere ancora oggi l’ortica dalla menta;

  2. non sono per nulla manuale: a fatica ottengo degli intrugli semi-liquidi o, al contrario. bruciacchiati che poi pretendo di applicare su di me o sul povero malcapitato di turno.

La mia passione per tutto ciò che è naturale non si esaurisce con le erbe e le piante officinali.

Amo anche i cristalli e le pietre grezze: per settimane ho dormito con un’ametista sotto il cuscino e ho lavorato con una tormalina nera piazzata vicino al computer.

Pietre che regolarmente interravo per alcuni giorni, non appena diventavano opache, per restituire loro una maggiore carica energetica.

Preferisco le acque aromatiche ai profumi tradizionali più intensi, gli oli essenziali alle fragranze chimiche per ambiente; quando posso, utilizzo tessuti e materiali naturali per me e la casa, come il cotone e il lino, la paglia, il vimini, la rafia e il rattan, per la gioia dei miei gatti che si affilano le unghie con più gusto.

Quel che accomuna tutti questi interessi è la mia voglia di sperimentare; lo stesso desiderio di sperimentare che ho riscontrato in Gadda, uno fra gli autori che ammiro di più, nella scrittura.

Lo stile narrativo di Gadda

Gadda ha una tale cura della scrittura che nei suoi testi la lingua diventa un elemento predominante al pari dei personaggi principali delle sue storie.

Sono state tante le etichette che gli studiosi hanno voluto appiccicare alla sua prosa per definirla: plurilinguismo, macaronico, pastiche, barocco.

Inquadrarla, però, è quasi impossibile; per Gadda la scrittura non aveva uno scopo puramente estetico, ma diventava uno strumento necessario per rappresentare la complessità della realtà.

Il mondo era incredibilmente caotico agli occhi di Gadda e doveva essere raccontato attraverso una scrittura altrettanto complessa e stratificata.

Il tratto distintivo più evidente nel suo stile è la presenza di più elementi molto diversi messi insieme, usati spesso e volentieri per suscitare una sorta di estraniamento nel lettore.

Nella sua incredibile tavolozza espressiva sono presenti parole auliche, espressioni arcaiche, frasi discorsive, linguaggi popolari, dialetti, tecnicismi, neologismi e vocaboli stranieri.

In particolare modo, Gadda amava usare il milanese, il suo dialetto nativo, che utilizzava quando voleva prendere in giro la borghesia milanese; il fiorentino, utile ad aggiungere una nota comica e colloquiale nelle frasi; il romanesco, invece, lo usava per raccontare i diversi aspetti della Capitale colta agli albori del fascismo.

Gadda è stato un autentico gigante della letteratura italiana: basti pensare che nessuno, fatta eccezione per Dante, ha saputo inventare tante parole ed espressioni nuove come lui.

Forse, proprio a causa della complessità della sua prosa che oggi si tende a non ricordarlo e studiarlo come meriterebbe.

D’altronde lo stesso Gadda definì “inaccettabile la posizione di chi ritiene che la letteratura dovrebbe adeguarsi alle aspettative di lettori d scarso livello culturale.

Lo scrittore milanese rivendicava la sua propensione (in fatto di lingua) per la “liberalità” e il “lusso”.

Gadda sottolineava l’importanza dell’aspetto plastico della parola che doveva modellarsi per raccontare al meglio la complessità della vita per indagare efficacemente i diversi aspetti del mondo.

In parole semplici, per Gadda la realtà era molto complessa, contraddittoria e caotica e non poteva essere raccontata usando un linguaggio semplice e banale.

Gadda non curava solo la scelta delle parole in maniera maniacale, ma prestava attenzione anche al ritmo, al suono, alla punteggiatura e alla sintassi: proprio per questa ragione aveva bisogno di una lingua più ricca possibile che potesse attingere sia alla letteratura classica, arcaica, sia alla lingua dialettale, a quella scientifica e straniera..

Gadda sosteneva con forza il diritto e il dovere etico di conservare un atteggiamento aperto ne confronti di qualsiasi serbatoio di parole e immagini e si rifiutava di discriminare un linguaggio, contrariamente ai suoi colleghi dell’epoca, perché ritenuto troppo “basso”, dialettale, poco colto o tecnico.

 
Virna Cipriani