Il valore dei libri
Mi ritengo una persona molto fortunata, perché amo leggere. Nei libri trovo comprensione, famigliarità, sollievo da una realtà che fatico a capire.
Non importa se il romanzo sia stato scritto due secoli fa o in questi anni: sento comunque un’intima vicinanza, una condivisione dei valori.
Chi ama leggere, quasi sempre ama anche scrivere. Solo questo fa dei lettori una specie a parte capace di fiutarsi da lontano, riconoscersi e sentirsi simili.
Non saprei altrimenti usare i social: apro la pagina di Instagram e leggo post e storie di altri noiosissimi topi di biblioteca che pubblicano felici l’ultimo libro acquistato, citazioni di scrittori famosi, una nuova scoperta letteraria, anche se è sabato sera.
Ci si intende fra di noi, senza dover rendere conto agli altri.
Credo che accada in ogni ambito culturale e artistico, anche per chi ama la pittura, la musica, la filosofia.
Era così anche quando frequentavo l’ambiente del teatro. C’era un linguaggio tutto nostro fatto di riferimenti teatrali, citazioni e battute che capivamo solo noi.
Un’intesa che non ho mai trovato in altri contesti. Nel mio lavoro, per esempio, non ho mai notato questa passione così profonda, la stessa complicità fra colleghi.
Si lavora per i soldi. Non ho mai sentito un apprezzamento per un bell’articolo scritto da un collega o per un’espressione lessicale ben riuscita, per l’ultimo manuale di scrittura comprato.
Non ci si entusiasma per un testo scritto coi fiocchi, come accade fra noi lettori.
La scrittura è messa a servizio di un impiego, serve a farci guadagnare dei soldi, perde il valore più profondo e artistico che contraddistingue, invece, la letteratura.
Eppure anche gli scrittori guadagnavano e guadagnano con le parole.
Una fra le cose di cui sono più grata, quando leggo, è aprire un libro e ritrovarci le idee, i valori, le convinzioni d uomini e donne di spessore.
Sono lì, racchiusi fra le pagine ingiallite di un vecchio romanzo: mi basta aprirlo e cominciare a leggere. In un secondo travalico il tempo, mi proietto nel 1800, i confini geografici e linguistici si disfano e io entro in contatto con menti brillanti, creative, filosofiche, visionarie.
Questa è la magia dei libri.
Anche in un’epoca arida come la nostra, posso coltivare mente e cuore, trovare dei maestri di vita, modelli a cui ispirarmi e sentirmi compresa.
La rabbia che provo nel convivere con le ingiustizie viene canalizzata e assume una forma chiara attraverso le parole di Steinbeck; non devo più fare i conti con un’energia informe, un malessere impreciso: ora ha un nome, una causa, maggior chiarezza e posso gestirla, affrontarla con un ragionamento profondo, non devo sfogarla all’esterno.
Di recente ho letto “La bellezza non svanirà” di Cronin, uno di quei libri destinato a restare nella mente a lungo, anche dopo averlo chiuso e riposto in libreria.
Se nella realtà si fatica a trovare dei punti di riferimento, degli esempli da cui trarre ispirazione, nulla ci vieta di cercarli nei romanzi.
Stephen, il protagonista del romanzo, è un giovane pittore talmente appassionato da andare contro la famiglia, le convenzioni sociali, le mode artistiche dell’epoca per inseguire un profondo ideale.
Patisce la fame, condizioni fisiche ed economiche insostenibili, gravi umiliazioni, ingiustizie, prepotenze da chi è al potere, da chi invidia il suo talento e tenta di affossarlo in ogni modo, lecito e non lecito.
Tutte le volte lui si rialza, sempre più logorato e sciupato, testardo come un mulo, determinato a inseguire il suo nobile ideale.
Il protagonista del romanzo di Cronin incarna lo stereotipo del pittore geniale: una vita di stenti e incomprensioni e la fama, il riconoscimento una volta morto.
Conclusa la lettura, ho provato una profonda gratitudine per Cronin che ha messo il suo cuore nella stesura di questo romanzo, non tenendo conto delle aspettative dell’editore e del pubblico.
In Stephen ho trovato la forza di reagire con grinta alle mie difficoltà, non perdermi d’animo e non tradire i miei di ideali.
Pearl Buck è una scrittrice americana che ha vissuto molti anni in Cina, nei quartieri più umili fra i contadini.
I suoi romanzi non hanno solo intrattenuto molti lettori, ma hanno avuto il merito di raccontare la Cina del Novecento agli americani, hanno aumentato la consapevolezza di un paese e di un popolo così lontano dagli Stati Uniti, quello cinese, fra i suoi connazionali.
Steinbeck ha dato voce ai pover messicani, Tolstoj ha disseminato idee di enorme valore etico nei suoi libri. Charlotte Bronte mi ha insegnato che l’amore è anche devozione e non solo pretesa.
Quando mi sento soffocata dal mondo circostante cerco rifugio in un romanzo, mi basta buttare l’occhio sulle pile di libri accatastati sul comodino o sulla scrivania, per essere felice.
È inspiegabile la gioia che provo quando riconosco un’emozione inespressa, un aspetto di me di cui non avevo coscienza fra le pagine di un romanzo, scritto decenni prima da uno sconosciuto. Un’intesa di anime, di sensibilità affini.
Gli scrittori danno una voce, una forma, una logica alle mie emozioni, ai miei malesseri, fanno chiarezza dentro di me, mi aiutano a riflettere sulle cose e a non vivere in maniera istintiva e inconsapevole.