Quali storie ti racconti ogni giorno?

 

In questo periodo vado a Padova una o due volte alla settimana, per accompagnare mia madre a fare alcune medicazioni delicate.

Ogni volta il capoluogo mi accoglie con un cartello pubblicitario sui cui campeggia la frase: “il tram ridisegna la città”.

Mai slogan fu più appropriato, perché da quando il sindaco ha avuto la brillante idea d’introdurre delle linee del tram nella città (avanguardia pura, direbbe qualcuno), Padova è un enorme cantiere a cielo aperto in cui regna il caos e la viabilità cambia di giorno in giorno.

Se già è un problema per i suoi abitanti che si ritrovano a fare i conti quotidianamente con deviazioni stradali nuove e strettoie che rallentano il traffico, lo è ancora di più per chi come me non conosce bene la città e possiede la memoria visiva di un pesce rosso.

Se a questo aggiungiamo il fatto che sono costretta a parcheggiare non troppo lontano dall’ospedale, le cose si complicano ancora di più.

Proprio l’altro giorno, dopo aver accompagnato mia madre nella sala d’attesa del piano terra dentro l’ospedale, sono corsa a recuperare l’auto per parcheggiarla come si deve.

Ho girellato per una decina di minuti nei dintorni, in cerca di un posto disponibile finché, come per magia, si è liberato un parcheggio proprio dietro l’ospedale.

Incredula, ho strizzato gli occhi per qualche secondo; dopodiché, mi sono guardata intorno per vedere se qualcun altro non lo avesse adocchiato prima di me, ho messo la freccia e mi sono accostata.

Ho così realizzato che lo spazio a disposizione era davvero poco e che avrei dovuto fare un parcheggio a S senza avere molto margine di manovra.

Come se non bastasse, un uomo alla guida di un SUV si è piazzato dietro di me e ha iniziato a lampeggiarmi con arroganza, come a dire: “spostati che tanto non ce la fai”.

Non lo avesse mai fatto. Quel piccolo gesto pieno di tracotanza ha risvegliato in me lo spirito di contraddizione.

Con un’espressione che ricordava il cane Muttley nel cartone Wacky Races, a testa bassa, entrambi le mani serrate intorno al volante, ho cominciato a fare le manovre necessarie per entrare nel parcheggio.

Mentre lui non accennava a volersi spostare e mi fissava per farmi sentire a disagio, io con un’ostinazione insospettabile, sono riuscita a infilarmi a suon di micro-spostamenti di pochi, misuratissimi centimetri e continue sterzature disperate.

Alla fine, sudata dalla tensione accumulata ma soddisfatta, sono scesa dall’auto con aria trionfante, ho cercato con lo sguardo l’autista del SUV che ha messo in moto l’auto e lentamente se ne è andato.

Mi è bastato fare due passi a piedi per accorgermi che nel frattempo si era liberato il primo posto della fila; il proprietario del SUV, che lo aveva individuato, mentre io ero intenta e fare le manovre, ha aspettato che finissi e poi con un’occhiata derisoria ha parcheggiato tranquillamente in prima fila.

Padroneggiare la realtà per non farsi sopraffare dal caos

Sono giorni altalenanti; li passo fra corse frenetiche, spostamenti in macchina e momenti di calma in cui ne approfitto per recuperare il sonno e le mie cose.

In queste giornate mi fanno compagnia gli Squeeze dopo tanto tempo che non li ascoltavo, mentre rifletto su quanto conti padroneggiare le parole, sia quelle che ci ripetiamo mentalmente, sia quelle che pronunciamo ad alta voce per non lasciarci sopraffare dal caos interiore ed esteriore.

Da sempre l’essere umano racconta le storie per dare una logica a una realtà che altrimenti gli apparirebbe caotica e frammentata; per imprimere ricordi, insegnamenti, comunicare, persuadere, vendere.

Attraverso il dialogo interiore, intessiamo una trama che è la nostra vita, non è un caso che usiamo le stesse parole, intessere, intreccio, trama, fili, per parlare sia delle storie sia dei tessuti.

Come ho scritto più volte, la realtà di cui facciamo esperienza, ne sono convinta, è il riflesso della nostra identità.

Non esiste una realtà oggettiva e uguale per tutti, nel mondo là fuori; ognuno la vive a seconda della propria prospettiva.

Una volta ho letto un libro che parlava di aldilà in cui c’era scritto un concetto che, sia vero o meno, mi è rimasto in mente a lungo.

Si usa dire che poco prima di morire rivediamo per intero la nostra vita.

Secondo l’autore di quel libro, noi non ripercorriamo solo gli eventi della nostra esistenza, ma sentiamo il vissuto emotivo degli altri, delle persone a cui abbiamo fatto del bene o del male.

Se abbiamo fatto uno sgarbo a qualcuno, proviamo i sentimenti che ha provato quella persona nel subire il nostro gesto spiacevole.

Quale miglior modo di prendere coscienza delle nostre malefatte? mi sono detta.

Credo profondamente che la realtà sia distorta dalla prospettiva attraverso cui la vediamo.

E che la prospettiva sia a sua volta condizionata, aihmè, dalla nostra personalità.

Se da piccolino i tuoi genitori ti hanno più volte giudicato come un stupido e un incapace, avrai maturato probabilmente un’identità insicura: le esperienze più importanti che farai, le tue scelte, i risultati confermeranno quella convinzione.

E, cosa ancora più grave, le storie che racconterai a te stesso e agli altri, quelle che imprimeranno i ricordi e li renderanno indelebili, saranno allineate con quella credenza limitante.

Come tanti puntini d’inchiostro nero sotto pelle tratteggìano i contorni e danno forma a un’immagine che diventerà poi il tatuaggio, le storie uniscono i fili del nostro vissuto, le emozioni, i pensieri, pezzi di dialoghi come cantava Jovanotti; conferiscono una logica e maggiore solidità a quei frammenti di esistenza di cui facciamo esperienza.

Non ci pensiamo mai, ma basta un odore per dare vita a un ricordo d’infanzia o a una storia che poi poco conta se sia reale o no.

È più forte di noi; parcheggiamo l’auto sotto casa, ci travolge di sprovvista l’odore dell’erba appena tagliata e subito la mente si rivolge al vicino che ha deciso di provare il nuovo tosaerba comprato in saldo, come ci ha raccontato qualche giorno prima, mentre la moglie ai fornelli prepara la cena.

Un semplice odore, non sa si bene da dove provenga, ci ha indotto a produrre delle immagini e una microstoria che le tenga unite e dia loro una logica.

Se accettiamo quest’idea come vera, potremmo considerare l’eventualità di cambiare realtà, di raccontarci una storia diversa e fare esperienza del mondo da una prospettiva nuova.

Certo, non sarà facile e immediato, almeno all’inizio; dopo una vita che ci siamo raccontati sempre la stessa trama sembrerà innaturale, inizialmente, cominciarne una nuova.

Mi piace tanto l’immagine che dà Joe Dispenza, quando parla del cervello, dei pensieri, delle credenze, delle abitudini mentali.

Secondo lo scrittore statunitense, è attraverso la ripetizione che le vie del cervello si attivano di volta in volta, sono sempre più solide fino a formare dei veri e propri solchi. A quel punto, diventano le nuove abitudini di pensiero.

Mi torna in mente una poesia di Blaga Dmitrova che recita:

Nessuna paura che mi calpestino. Calpestata, l'erba diventa un sentiero.

Potremmo provare a tracciare dei sentieri consapevoli nella mente che formino piano piano la nostra identità e, come conseguenza, la nostra nuova realtà.

Potremmo sfruttare quel chiacchiericcio interiore che non riusciamo mai a zittire, per raccontarci nuove storie e poi stare a vedere che succede là fuori, nel mondo fisico, nel lavoro, nelle relazioni, in famiglia. Se effettivamente a parole e a storie diverse corrisponde una esperienza di vita differente.

 
Virna Cipriani